E Sia Un Calcolo A Guidarci
"Guardiamo in faccia alla realtà.
In nome della correttezza. E di quello che sono, di tutto ciò che mi circonda, è giusto che io per primo mi impegni ad essere sincero con me stesso. Alla fine, i disagi affrontati dalla mia persona, e che hanno dato sfogo alla mia rinascita, o nascita, dipende dai punti di vista, non sono mai stati fra i più disperati. E' giusto riconoscerli come fra i più futili, malgrado siano stati proprio loro a scatenare i miei doni. Ciò che c'è di realmente importante, nonché il reale fulcro di tutto, è cosa io sia realmente. O cosa sia diventato. Avvenne il periodo in cui venni definito vittima di una sindrome millenaria. Una vaga forma di malattia, in quanto riconosciuta instabile ed estranea ai normali funzionamenti di un individuo. Si narrava che solo una persona alla volta, nel mondo, poteva esserne soggetta, e che una volta deceduta, o privata del dono, ne sarebbe stata eletta una seguente. Inizialmente non riuscivo a sentirmi fortunato, ma solo responsabile, in quanto una persona molto più ostile di me avrebbe potuto ricoprire il mio ruolo. Compresi quindi che fu solo il globo a godere di vera fortuna. Prima ci fu il dolore. Poi la mente e i suoi pensieri si annebbiarono. Ogni immagine, anche fra quelle dimenticate, cominciò a riaffiorare, manifestandosi molto rapidamente. Quello che credetti fosse un ordine sequenziale, ma che in realtà si presentò solo come confusione. Un processo distorso, ma deciso: ogni immagine rilasciava un emozione diversa, in base al ricordo correlato, ed io venivo costretto ad assorbirle tutte quante in un unico momento. Un lungo e tortuoso attimo, mentre lentamente rinascevo. Noi, chiamammo quel processo Sincronizzazione. L'esatto momento in cui le mie doti, i miei sensi e le mie future capacità mentali, entrarono in una stabile sincronia con La Scelta. Semplicemente, i miei doni mi fecero connettere con tutte le cose viventi e non viventi presenti sul pianeta Terra. Divenni in grado di calcolare e prevedere tutte le sorti, tutte le possibili variabili, di tutto ciò che da quella notte mi avesse circondato. Poi ritornò il dolore. Le mie carni e le ossa cominciarono a muoversi. Ogni mio difetto si corresse. Ricordo ancora il sangue dalle mie gengive, mentre urlavo senza sapere se fosse per la sofferenza o per una richiesta di aiuto. Diventai l'emblema della razza umana. Fu un duro calvario. Doloroso il necessario per giustificare la possibile redenzione, o comunque lo scopo delle future scelte che avrei potuto adottare, una volta che avessi ripreso conoscenza. I più fantasiosi mi definiscono Il Salvatore: i poveri, gli inermi, tutti coloro che per la società non sono degni o non sono nella posizione di poter scegliere. I potenti, invece, non la pensano così: spesero quantità impensabili di denaro affinché io fossi denunciato solo come un mostro. E gli appellativi variavano di continuo: Pericolo nazionale, terrorista, individuo instabile e fuori controllo, fuori legge... Ma il mio preferito rimarrà sempre "Soggetto instabile non identificato". Mi diedero dell'alieno. Credo. Giunse poi il giorno in cui iniziai ad adottare il chiaro concetto di cosa avrei potuto fare, di quanto oltre mi sarei potuto sporgere. Non fu, quindi, difficile procedere e raggiungere gli obbiettivi che mi prefissavo. E niente e nessuno riusciva a fermarmi... semplicemente perché niente e nessuno poteva. E lo stesso quesito mi tormentava ogni notte: fino a dove sarei potuto giungere? Quanto alti sarebbero stati i vertici che avrei potuto sfiorare? Quali sono i miei limiti? Perché tutt'ora non li conosco. Devo molto ai ragazzi. Più di quanto io mi possa permettere. Devo loro la mia vita, la stessa che loro scelsero di dedicare alla mia missione. Alla nostra missione. Feci un giuramento, un giorno: promisi di non utilizzare mai il mio potere su di loro. Anche se ciò dovesse comportare dei rischi, perché furono anche i tradimenti a macchiare i nostri percorsi, ma non potevano avere più importanza di quanta ne potesse avere la stima e il rispetto che proviamo ancora oggi l'uno per l'altro. Possediamo tutti dei nomi in codice. Non a tutti è concesso sapere i nostri dati reali. Fra noi, c'era Doc. Uno dei tanti cervelloni della famiglia. Amante della scienza e, come molti altri, del sapere. Agli inizi Doc faceva studi su di me tutti giorni, molte volte anche di notte. Mi monitorava. Diagnosi su diagnosi. Voleva accertarsi che il mio dono non potesse per nessuna ragione consumarmi o comunque recare danno ne al mio corpo, ne alla mia mente. Definì la mia sindrome come un sistema-avanzato-di-calcolo-mentale. Una sorta di database mentale multiuso, che accelerava il mio sistema di immagazzinamento dei pensieri, e dei ricordi, aumentava le mie capacità di ragionamento e mi concedeva una dedica superiore di concentramento nei confronti di... tutto. Anche l'indurimento di uno zigomo poteva dettarmi i pensieri esatti di chi apperteneva quella guancia, e le sue intenzioni. E come precederle. Potevo sapere tutto. E di tutti. Il segreto e il celato sparì dal mio vocabolario. Capì di non avere più limiti e tutto era dettato dalla mia volontà. Stavo diventando un dio. Ricordo il momento in cui mi accorsi di una peculiarità, che inizialmente ci convivevo poi cominciò a spaventarmi. O comunque a scatenarmi dei pensieri. Era il periodo in cui ormai avevo imparato a pilotare la SuperTuta, una dei tanti congegni di Hacker. Il mio preferito. Un abito stilizzato con tenuta tattica per il combattimento equipaggiato con gadjet in dotazione standard e sistema areodinamico. Un carrarmato riuscì a colpirmi mentre ero in volo, ancor prima che potessi raggiungere lo schieramento. Scattai verso il veicolo appena mi rialzai. Lo danneggiai, strappai il cannone come fosse burro e scagliai il mezzo addosso ad un altro in arrivo, poco distante da noi. Dopo un breve attimo di confusione atterrai lento al suolo. Non provai nulla. Ne rabbia, ne tristezza e ne stanchezza. Rigido e irremovibile come l'ago di una bilancia. La guerra era ancora in atto, fino a quando non udì quelle urla. E gli spari cessarono. Da quella poltiglia di metallo ne uscì un soldato. Straziante urlava e piangeva. Era sporco di sangue, riuscii a rilevare i suoi dolori rivolti ad eventuali danni nel braccio e nel bacino. Mi avvicinai e gli spari ripreso, ma per me tutto era muto. Ero solo. Attirato da quella povera anima in pena, che mentre urlava si chiedeva perché avesse scelto di ubbidire agli ordini. Io lo so. Potevo sentirlo. Potevo vederlo. Ma non fu quello a sconvolgermi. Fu proprio me stesso. Impassibile. Vuoto. Privo di tutto... compresi quindi di non provare nulla. Pagai i miei doni con le mie emozioni. E la domanda fu la seguente: "Se non provo più niente, allora perché preoccuparsi tanto...?". Doc riconobbe il mio stupore come un segnale subconscio della persona normale che ero prima. Il mio vecchio me voleva tornare indietro. E credo che le mie doti me lo avrebbero permesso... ma non potevo rischiare che il mio percorso lo incalzasse la persona sbagliata. Non potevo. Decollai più rapido di un fulmine ed andai via da quel campo di battaglia. Volevo solo tornare a casa. Ed è dall'alto dei cielo, dal basso delle montagne, che ogni giorno qualcuno pronuncia il mio nome. Questo mi rincuora, perché negarne il piacere? Ciò che importa è il prigioniero con cui ogni giorno ed ogni notte combatto per liberare. E se sarà un mostro a salvarlo, se è questo che il mondo ha bisogno... bhè... non l'ho chiesto io in questi duemila anni." -Signore. Cosa pensa la gente che più la conosce? Quella, magari, del posto da cui viene? "Credono che io sia un supereroe. La SuperTuta può assumere diversi aspetti, lo sa? E' giusto accontentarli ogni tanto." |
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